Era un agosto talmente caldo
Era un agosto talmente caldo che l'asfalto di fronte al grande palazzo diventava morbido e all'apparenza gommoso, odorando ancora di più d'agosto. Il palazzo a otto piani non aveva ancora l'ascensore, era in costruzione. Solo alcuni appartamenti erano stati affittati, a inquilini più determinati o con più urgenza di sistemare la famiglia. Dal terrazzo a vasca incassato nei mattoni rossicci io bambina salutavo ogni giorno, per quell'estate, l'operaio che stava appollaiato in cima alla gru gialla, esattamente di fronte al palazzo. Mi intimidiva, sapere che lui c'era sempre, lassù, anche se quel sempre era il sempre dei bambini, che può durare una settimana.
Il termometro giocattolo che avevo messo in quel sottotetto segnava 42°, quell'estate. La canottiera blu che indossavo "sempre" aveva le spalline incrociate di dietro e sottili, e mi sembrava molto femminile avere la schiena nera di abbronzatura e due righine di pelle bianca che mi disegnavano una croce inclinata. Mi sentivo una piccola ragazzina con le spalle abbronzate, anche se giocavo con i maschi del cortile a fare le gare di bici intorno alle case. Sfidavo chi mi sfidava, indipendentemente dal sesso. Del sesso non mi ero ancora mai accorta, quell'estate.
Un pomeriggio la piccola banda sudata di bambini si era avventurata nella discesa che portava ai garage in lavoro, era buio e pieno di macchinari, ma era fresco e c'era odore di cemento e si sentiva forte il rimbombo delle catene delle biciclette. Stavo attenta che non si sentisse mai, neanche per un attimo, il ronzio fisso di quando non pedali, che vuol dire che sei stanca o che hai paura della velocità. Io volevo che i maschi pensassero che non avevo paura di niente. Ma la paura l'avevo. E anche la consapevolezza che in quei corridoi bui e in quegli angoli con cataste di ferri non dovevamo infilarci. Ma si faceva. Era fresco, lì sotto, prendevamo respiro e poi di corsa con la rincorsa risalivamo la rampa che terminava in un quadrato di luce accecante. Un'onda di caldo ci faceva mancare il fiato, tra il sudore, la fatica, l'asfalto, le risate che seccavano i denti, correvamo via, come un piccolo sciame d'estate.
Quel pomeriggio eravamo più coraggiosi del solito, o forse nessuno parlava di paure e il capo della banda, al momento di girare e riprendere la direzione del grande palazzo, aveva guardato indietro un attimo verso di noi e, ridendo, aveva tirato dritto, pedalando con più forza. Ci eravamo messi in piedi sui pedali, per raggiungerlo, che le coscie erano calde fuori dal sole e dentro dalla fatica. A destra, e poi drittto, e andava avanti, allontanandosi davvero tanto dal nostro legittimo cortile. " 'ndemo là dela strada dela paura!" aveva gridato, virando a sinistra e tagliando all'improvviso la grande strada. Noi, come fedeli seguaci, rischiando la vita senza rendercene conto, tutti dietro.
Laggiù, in fondo a quella via di poche centinaia di metri, imponente e silenziosa, la Risiera di San Sabba. Campo di concentramento nazista, abbandonato dopo la guerra. Ora monumento nazionale, per non dimenticare.
Pur nel sole obliquo d'agosto era solo il grigio che usciva da quelle mura e noi, ancora senza accorgercene, avevamo rallentato, sempre un pò di più, chi con la scusa di riprendere fiato, chi con un laccio della scarpa da tennis che "intrigava la catena", chi non poteva fare altro perchè quello davanti aveva rallentato... Uno alla volta frenammo stridendo, di fronte all'altissimo ingresso di quel macello umano. Risate forzate si trascinavano ancora su qualcuno dei nostri visi accaldati. Ma tanto potente era il peso di quell'aria intorno severa e incombente che superò i nostri imbarazzi e ci fece tacere. Tutti. Si sentivano solo i nostri respiri irregolari che riprendevano un ritmo a mano a mano più silenzioso, nel passare dei minuti. Fino al silenzio.
Sguardi di bambini che si infilavano in quel corridoio di dolore, senza capire, senza ragionare. Ma sentivamo tutti. Sentivamo dentro un peso, senza capire. In silenzio.
Ci sono cose ben più forti della comprensione umana, della saggezza, della conoscenza. Non migliori o più evolute, ma più potenti, invadenti, inspiegabili.
Sono cose taglienti che non hanno lame e che in silenzio si infilano nel petto come uno spirito sottile e si appoggiano al cuore, come una polvere silenziosa che ha un unico gesto. Il giorno dopo, di solito, siamo un pò cresciuti.
Il termometro giocattolo che avevo messo in quel sottotetto segnava 42°, quell'estate. La canottiera blu che indossavo "sempre" aveva le spalline incrociate di dietro e sottili, e mi sembrava molto femminile avere la schiena nera di abbronzatura e due righine di pelle bianca che mi disegnavano una croce inclinata. Mi sentivo una piccola ragazzina con le spalle abbronzate, anche se giocavo con i maschi del cortile a fare le gare di bici intorno alle case. Sfidavo chi mi sfidava, indipendentemente dal sesso. Del sesso non mi ero ancora mai accorta, quell'estate.
Un pomeriggio la piccola banda sudata di bambini si era avventurata nella discesa che portava ai garage in lavoro, era buio e pieno di macchinari, ma era fresco e c'era odore di cemento e si sentiva forte il rimbombo delle catene delle biciclette. Stavo attenta che non si sentisse mai, neanche per un attimo, il ronzio fisso di quando non pedali, che vuol dire che sei stanca o che hai paura della velocità. Io volevo che i maschi pensassero che non avevo paura di niente. Ma la paura l'avevo. E anche la consapevolezza che in quei corridoi bui e in quegli angoli con cataste di ferri non dovevamo infilarci. Ma si faceva. Era fresco, lì sotto, prendevamo respiro e poi di corsa con la rincorsa risalivamo la rampa che terminava in un quadrato di luce accecante. Un'onda di caldo ci faceva mancare il fiato, tra il sudore, la fatica, l'asfalto, le risate che seccavano i denti, correvamo via, come un piccolo sciame d'estate.
Quel pomeriggio eravamo più coraggiosi del solito, o forse nessuno parlava di paure e il capo della banda, al momento di girare e riprendere la direzione del grande palazzo, aveva guardato indietro un attimo verso di noi e, ridendo, aveva tirato dritto, pedalando con più forza. Ci eravamo messi in piedi sui pedali, per raggiungerlo, che le coscie erano calde fuori dal sole e dentro dalla fatica. A destra, e poi drittto, e andava avanti, allontanandosi davvero tanto dal nostro legittimo cortile. " 'ndemo là dela strada dela paura!" aveva gridato, virando a sinistra e tagliando all'improvviso la grande strada. Noi, come fedeli seguaci, rischiando la vita senza rendercene conto, tutti dietro.
Laggiù, in fondo a quella via di poche centinaia di metri, imponente e silenziosa, la Risiera di San Sabba. Campo di concentramento nazista, abbandonato dopo la guerra. Ora monumento nazionale, per non dimenticare.
Pur nel sole obliquo d'agosto era solo il grigio che usciva da quelle mura e noi, ancora senza accorgercene, avevamo rallentato, sempre un pò di più, chi con la scusa di riprendere fiato, chi con un laccio della scarpa da tennis che "intrigava la catena", chi non poteva fare altro perchè quello davanti aveva rallentato... Uno alla volta frenammo stridendo, di fronte all'altissimo ingresso di quel macello umano. Risate forzate si trascinavano ancora su qualcuno dei nostri visi accaldati. Ma tanto potente era il peso di quell'aria intorno severa e incombente che superò i nostri imbarazzi e ci fece tacere. Tutti. Si sentivano solo i nostri respiri irregolari che riprendevano un ritmo a mano a mano più silenzioso, nel passare dei minuti. Fino al silenzio.
Sguardi di bambini che si infilavano in quel corridoio di dolore, senza capire, senza ragionare. Ma sentivamo tutti. Sentivamo dentro un peso, senza capire. In silenzio.
Ci sono cose ben più forti della comprensione umana, della saggezza, della conoscenza. Non migliori o più evolute, ma più potenti, invadenti, inspiegabili.
Sono cose taglienti che non hanno lame e che in silenzio si infilano nel petto come uno spirito sottile e si appoggiano al cuore, come una polvere silenziosa che ha un unico gesto. Il giorno dopo, di solito, siamo un pò cresciuti.
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