Confessione di una sella
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Confessò della smania che quel giorno raggiunse l'apice delle smanie, e la portò alla stazione, nel parcheggio laterale della stazione dei treni, come un'invasata che segue un'ombra, come un'ipnotizzata che esegue degli ordini con gli occhi sbarrati. Il parcheggio pieno, decine di auto in seconda fila con i lampeggianti accesi appostate intorno alle altre affiancate nei posteggi regolari. Eliminando d'un sol colpo d'occhio tutte le automobili, aveva iniziato a scandagliare il fondo del panorama metallico a due ruote davanti a lei. Moto da strada, moto vecchissime, scooter nuovi di zecca, motorini mutilati e scassinati, senza sella o senza una ruota abbandonati da chissà quando (un'identificazione istintiva con quelle carcasse l'aveva impossessata all'istante, facendola sentire meno sola), qualche rarissima bicicletta caduta su un panettone di cemento, altre moto, quante moto. Ma eccola. Eccola. Sembrava lei, no non poteva essere lei. Ma allora è partito, allora ha preso un treno e l'ha lasciata qui. Si era lei. Omiodio era la sua.
Confessò di essersi avvicinata come una ladra nella notte, non essendo invece nè ladra nè notte. Di aver spento il motore del suo scooter e in punta di piedi essersi avvicinata alla sua moto. Si era la sua, un adesivo consumato e opaco a 3 centimetri dalla sella la identificava e in un istante la rendeva unica, solitaria. Ogni cosa intorno spariva, dissolvendosi in una nuvola sfocata. La sella rossa.
Confessò che il timore di sfiorarla la rendeva una feticista in adorazione del suo oggetto, una madre che teme di toccare il figlio ritornato a lei, un'amante che spia il suo uomo che va al cinema con la moglie. Ferma, in piedi accanto alla moto. I fili tessuti forsennatamente per la città avevano trovato il gomitolo. Lentamente aveva alzato una mano, e lentissimamente l'aveva adagiata fino a sfiorare la pelle rossa. Un tepore improvviso era passato fino al suo palmo. Calda, la sella era ancora calda. Invasata, aveva iniziato a toccarla, prima con una mano, poi con entrambe, premendole su quei centimentri di oggetto inanimato che trattenevano ancora il suo calore. Palmo a palmo, ogni piccolo spazio era stato toccato, accarezzato, respirato. Si era avvicinata con il viso, piegandosi sulla moto e sfiorando con la guancia la pelle. "E' una malattia", sussurrava. Sì, era diventata una malattia. Gente con le valigie trascinate la guardava come si guarda una pazza, che struscia il viso su una moto parcheggiata. Ha gli occhi chiusi, un'espressione estatica. E' una pazza come ce ne sono tante, in questa città. E appena uno arriva a escende dal treno, eccone già una, folle innamorata di una moto.
Confessò di quel giorno una specie di orgasmo mentale, confessò alla sua amica di non aver mai fatto nulla del genere, nè prima nè dopo. Confessò la consapevolezza che certe cose vanno confessate, per rendersi conto che sono reali, avvenute davvero, non sogni, non immaginazione delirante, che siamo davvero arrivati a tanto. E che mai, mai mai, ci arriveremo di nuovo.
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