Finisci di vestirti in penombra intabarrandoti nel mantello che ti arriva fino alle caviglie e sembri un disegno in bianco e nero della morte. Ho i capelli increspati dal sesso di stanotte e la camicia tutta arrotolata fin sullo stomaco, mi giro nel letto fino a sporgere la testa fuori, per vederti in fondo al corridoio, già accanto alla porta. Quando credi che nessuno ti veda hai l’espressione del viso più severa, sei pieno di nuvole là dentro, che ti portano via. E Torino è annebbiata e fredda, sapessi la mia pelle come è ancora calda qui nel letto umido, cerchi il cappello, il bastone, ti sistemi nello specchio l’alto collo bianco inamidato, come fossi solo. Il portone di C.so Montevecchio è aperto, un’onda di aria densa d’acqua ti si sbatterà sul viso e io tremo nel pensarlo così freddo appoggiarsi alla mia pancia. Mi stordisci nel controllo che hai, nel poco indugiare nelle tentazioni, finchè non diventano pura volontà. Sei bello, così bello che non sai che dirmi “non guardarmi così” quando mi fisso sulle rughe delle tue guance.“Non partire” dico senza voce, muovo solo le labbra e sento la porta chiudersi, lo fai piano. Questo è un gesto d’amore o di fuga, mi chiedo. Lo saprò stasera, se torni, stanco e seccato, e io mi sarò già spogliata, proverò refrigerio quando con le mani fredde toglierai le mie braccia incrociate tra le gambe strette, mentre ti aspetto sul nostro letto.
(nella foto, il portone di C.so Montevecchio 30, a Torino)
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