Trieste
Mi sono detta che bello scrivere e non sapere chi leggerà, dà una libertà da vertigine, come salire in cima al Faro della Vittoria. Il Faro della Vittoria guarda la mia città, e guarda tutti quelli che vi si avvicinano. Non serve mica poi a tanto, con quel popò di nome che ti fa sentire sempre sul confine di qualcosa. Ormai ci sono tanti faretti intorno, bassi, tarchiati, come piccoli rubini tra gli alberi.
Quando arrivi dal mare ti sembra che Trieste sia una cerniera di case messa lì, tra i boschi e il mare. Nella notte, è tutto nero, solo le lucine e i rubini che sincopati aprono gli occhi. Di giorno invece, rimane lui, non serve mica che sia illuminato, è talmente bianco che potrebbe riflette da spento.
Avevo dieci anni, quando mio padre è stato trasferito a Trieste. Era un sollievo per un papà ufficiale, poter fare un grande sacco della sua famiglia pallida e trascinarlo via da quell’orrenda Mestre che ci aveva scioccati per 4 anni.
Tolti via dai piedi delle Alpi, come dei funghi non abbastanza cresciuti, e trascinati a Mestre, mio fratello ed io stavamo ore appesi a quella finestra al quarto piano tra il muro color arancione, a guardare in basso. I fiumi di persone che attraversano la via Piave, i cortei di Marghera, gli operai sfruttati, gli striscioni rossi, le canzoni, si, quelle canzoni ci sono ancora, dentro di me, da qualche parte. Corali e stonate, univano persone diverse che avevano tutte la stessa tuta blu. E cosi’ quel fiume era rosso e blu. E il suo suono era Bandiera rossa.
In quel sacco portato via dal fiume di persone, c’eravamo mia madre, mio fratello, ed io. Si stava stretti, insieme. Questa è l'aria che ho respirato finchè sono diventata una donna. Insieme. Noi, resisteremo a tutto.
Trieste invece, era un respiro di vento.
Mi faceva sentire più piccola di quella che ero, ma mi abbracciava in quel modo freddo e scostante che ha Trieste per accoglierti. Come un nonno con il quale non hai confidenza.
Trieste. La storia, le paure, le sfide, l’aria, la pietra bianca, la gente strana.
La gente che ha tanto da dire, che spesso parla a vanvera, che molte volte ha un nonno morto sul Carso, che ha tante vite incatenate alla grande storia, ma che corre via, sotto i muri che riparano, fino che proprio è sicura che non sei un "'taliano". O che non te ne andrai, come un marinaio, che non prenderai la sua casa, come uno straniero, che non giudicherai le sue parole frammentate da esclamazioni slave, che non indicherai le sue donne come leggere dalle gambe
lunghe e dagli zigomi alti.
Lei, alta signora d’altri tempi, ha visto la mia pubertà farsi domande, quando uscendo di casa con una scusa, mi rintanavo dietro un angolo di austria, con il cappottino stretto stretto per bloccare il vento, e mi lasciavo baciare, dal primo bacio, sopra al marciapiede vicino alla chiesa ortodossa, che mi faceva sentire chissà dove. E il calore bagnato che scoprivo, ancora adesso si associa al vento che mi tagliava le guance.
Era uno di quei giorni che sono salita la prima volta sul Faro della Vittoria.
Appesa lassù, non riuscivo a spalancare di più gli occhi, per farmi entrare tutto cio’ che potevo. Le sottili spiagge di sassi sembravano ali di gabbiani e le coltivazioni di cozze poco al largo erano orecchini brillanti del mare. Ogni cosa sembrava piccola, come le bacche arancioni che trovavo nei cespugli, tali e quali dei piccoli pomodori, e allora le prendevo e le usavo per le mie bamboline, che mangiavano sempre insalata di pomodori. Ogni giorno.
Da lassù il vuoto mi ha rapito, gli altri visitatori stavano un metro indietro, con lo stomaco contratto dall’altezza. Io, sostenuta dall’aria, mi illudevo di volare, con gli occhi semi chiusi, immaginavo di essere un gabbiano e senza rumore, scivolare nell’aria.
Il vuoto, il cielo, l’aria.
Vista da lassù quella nuova città ha smesso di farmi paura, era un gioco di bambole, una città vestita da sera, un’apparente durezza che si scioglie dopo il primo bicchiere. Io, apolide nel sangue, anarchica nei desideri, ribelle nei segreti, profonda nelle mie passioni lì' ho iniziato ad amare questo luogo.
Non perché Trieste è sia apolide, libera, ribelle. Ma perché è sempre lì, come un albero sul lungomare, arioso, solido, salmastro.
Così come è bello che un uomo ami una donna. Con stupore. Con fiducia. Nel tempo, scoprendo ogni tanto una piazzetta nuova, con le pietre chiare e lisce. Maledicendo talvolta il freddo tagliente che rompe le nocche. Benedicendo il sole dell'estate che colora ogni cosa di mare, e quest'aria, che solo qui è aria trasparente e complicata e sincera.
Nella passione di non averne mai abbastanza, di vicoli e stradine strette. Nel gioco di scoprire gli angoli, di soffiare il vento sulla pelle, di stringersi forte.
Quando arrivi dal mare ti sembra che Trieste sia una cerniera di case messa lì, tra i boschi e il mare. Nella notte, è tutto nero, solo le lucine e i rubini che sincopati aprono gli occhi. Di giorno invece, rimane lui, non serve mica che sia illuminato, è talmente bianco che potrebbe riflette da spento.
Avevo dieci anni, quando mio padre è stato trasferito a Trieste. Era un sollievo per un papà ufficiale, poter fare un grande sacco della sua famiglia pallida e trascinarlo via da quell’orrenda Mestre che ci aveva scioccati per 4 anni.
Tolti via dai piedi delle Alpi, come dei funghi non abbastanza cresciuti, e trascinati a Mestre, mio fratello ed io stavamo ore appesi a quella finestra al quarto piano tra il muro color arancione, a guardare in basso. I fiumi di persone che attraversano la via Piave, i cortei di Marghera, gli operai sfruttati, gli striscioni rossi, le canzoni, si, quelle canzoni ci sono ancora, dentro di me, da qualche parte. Corali e stonate, univano persone diverse che avevano tutte la stessa tuta blu. E cosi’ quel fiume era rosso e blu. E il suo suono era Bandiera rossa.
In quel sacco portato via dal fiume di persone, c’eravamo mia madre, mio fratello, ed io. Si stava stretti, insieme. Questa è l'aria che ho respirato finchè sono diventata una donna. Insieme. Noi, resisteremo a tutto.
Trieste invece, era un respiro di vento.
Mi faceva sentire più piccola di quella che ero, ma mi abbracciava in quel modo freddo e scostante che ha Trieste per accoglierti. Come un nonno con il quale non hai confidenza.
Trieste. La storia, le paure, le sfide, l’aria, la pietra bianca, la gente strana.
La gente che ha tanto da dire, che spesso parla a vanvera, che molte volte ha un nonno morto sul Carso, che ha tante vite incatenate alla grande storia, ma che corre via, sotto i muri che riparano, fino che proprio è sicura che non sei un "'taliano". O che non te ne andrai, come un marinaio, che non prenderai la sua casa, come uno straniero, che non giudicherai le sue parole frammentate da esclamazioni slave, che non indicherai le sue donne come leggere dalle gambe
lunghe e dagli zigomi alti.
Lei, alta signora d’altri tempi, ha visto la mia pubertà farsi domande, quando uscendo di casa con una scusa, mi rintanavo dietro un angolo di austria, con il cappottino stretto stretto per bloccare il vento, e mi lasciavo baciare, dal primo bacio, sopra al marciapiede vicino alla chiesa ortodossa, che mi faceva sentire chissà dove. E il calore bagnato che scoprivo, ancora adesso si associa al vento che mi tagliava le guance.
Era uno di quei giorni che sono salita la prima volta sul Faro della Vittoria.
Appesa lassù, non riuscivo a spalancare di più gli occhi, per farmi entrare tutto cio’ che potevo. Le sottili spiagge di sassi sembravano ali di gabbiani e le coltivazioni di cozze poco al largo erano orecchini brillanti del mare. Ogni cosa sembrava piccola, come le bacche arancioni che trovavo nei cespugli, tali e quali dei piccoli pomodori, e allora le prendevo e le usavo per le mie bamboline, che mangiavano sempre insalata di pomodori. Ogni giorno.
Da lassù il vuoto mi ha rapito, gli altri visitatori stavano un metro indietro, con lo stomaco contratto dall’altezza. Io, sostenuta dall’aria, mi illudevo di volare, con gli occhi semi chiusi, immaginavo di essere un gabbiano e senza rumore, scivolare nell’aria.
Il vuoto, il cielo, l’aria.
Vista da lassù quella nuova città ha smesso di farmi paura, era un gioco di bambole, una città vestita da sera, un’apparente durezza che si scioglie dopo il primo bicchiere. Io, apolide nel sangue, anarchica nei desideri, ribelle nei segreti, profonda nelle mie passioni lì' ho iniziato ad amare questo luogo.
Non perché Trieste è sia apolide, libera, ribelle. Ma perché è sempre lì, come un albero sul lungomare, arioso, solido, salmastro.
Così come è bello che un uomo ami una donna. Con stupore. Con fiducia. Nel tempo, scoprendo ogni tanto una piazzetta nuova, con le pietre chiare e lisce. Maledicendo talvolta il freddo tagliente che rompe le nocche. Benedicendo il sole dell'estate che colora ogni cosa di mare, e quest'aria, che solo qui è aria trasparente e complicata e sincera.
Nella passione di non averne mai abbastanza, di vicoli e stradine strette. Nel gioco di scoprire gli angoli, di soffiare il vento sulla pelle, di stringersi forte.
Il Piccolo, 11 Marzo 2010, articolo di Rumiz....
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